Sono accusati di aver gambizzato l’uomo che era diventato l’amante della “donna sbagliata”. Sono stati condannati in primo grado il boss del clan Polverino, Peppe ‘o Barone, Giuseppe Simioli, Salvatore Liccardi e l’imprenditore puteolano Gennaro Di Razza, prestanome della cosca maranese. Avrebbero organizzato ed eseguito un agguato ai danni di Omar Memedoski, ragazzo di origine serba innamorato della nuora dell’imprenditore.
Le condanne. Giuseppe Polverino e Giuseppe Simioli hanno rimediato una condanna di 6 anni e 8 mesi di reclusione. Salvatore Liccardi è stato invece condannato a sei anni; Di Razza, infine, a 4 anni. Il pubblico ministero, durante la sua requisitoria, aveva chiesto condanne più severe. Gli avvocati hanno già annunciato che presenteranno ricorso in appello.
La storia. L’episodio risale al 2008, quando il serbo venne gambizzato nel corso di una spedizione punitiva all’esterno di un noto supermercato il 19 dicembre di quell’anno. A esplodere i colpi d’arma da fuoco, quel 19 dicembre 2008, fu Salvatore Simioli, alias ‘o Sciacallo. Il ragazzo era accusato di avere una relazione sentimentale con la figlia di Di Razza. L’imprenditore non aveva mai preso di buon grado quella tresca amorosa e aveva chiesto l’appoggio di Peppe ‘o Barone per punire Memedoski dopo alcuni avvertimenti, tra cui un paio di pestaggi, che non avevano sortito gli effetti sperati. Sebbene latitante, il boss dei Polverino acconsentì. “Ci penso io”, avrebbe detto.
Il precedente. La vendetta per motivi passionali si colorò però anche di un curioso precedente. Il primo tentativo di agguato, infatti, fallì miseramente, poiché uno degli appartenenti al commando di fuoco, Castrese Ippolito, proprio nelle battute antecedenti al blitz si era procurato una grave quanto rocambolesca ferita ad una gamba. Il boss diede tra l’altro mandato di eseguire il raid a Gaetano D’Ausilio, che però si mostrò tentennante perché conosceva la vittima. A seguito di questo episodio e dell’altro incidente, ‘o Barone decise di affidare il compito direttamente al numero due della cosca, Giuseppe Simioli, che gestì la situazione individuando basisti ed esecutori materiali, tra cui, appunto, Giuseppe Simioli. Fondamentali ai fini delle indagini sono state le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.