Cardito. E’ chiuso in cella da domenica, in isolamento, senza contatti con il mondo esterno. Nessuno, in carcere, può parlare e avvicinarsi a Tony, il 24enne che ha ucciso Giuseppe e picchiato barbaramente Noemi. Le giornate dell’omicida reo confesso scorrono lente, con inerzia e in solitudine. Tony rimugina sul delitto efferato e la paura di essere ‘”giustiziato” in carcere lo tormenta.
“Probabilmente è il detenuto più sorvegliato d’Italia. Ogni volta che dovrà uscire, sarà accompagnato da almeno 5-8 agenti penitenziari. I corridoi verranno bloccati, onde evitare che qualcuno possa avvicinarsi per fargli del male, lo dico per esperienza. Per quello che ha fatto, rischia la vita”, spiega Pietro Ioia, presidente dell’Ex D.O.N. (ex detenuti organizzati napoletani), attore e scrittore de “La cella zero”, che ci illustra come funzionano le cose in galera.
Il rischio che Tony possa essere preso di mira da altri carcerati è dunque alto. Nel sistema carcerario, infatti, vige un codice d’onore tra i detenuti, che pare non essere mera leggenda. Non si scende a compromessi, non c’è attenuante che regga, nessuna pietas concessa, se ti sei macchiato di uno degli omicidi più crudeli di sempre ti aspetta la punizione.
Una legge impietosa, vecchia come il ricorso alla violenza, che, a differenza delle altre, non è scritta né trasmessa oralmente da carcerato a carcerato; ma è un codice che reclama il diritto a punire chi si è infangato di colpe infami. Perché nel sistema penitenziario, che ha come fine la risocializzazione dei detenuti e il loro reinserimento in società, le mazzate sono tacitamente ammesse se hai ucciso e violentato un bambino o una donna.
“Lo definisco un gesto istintivo – chiarisce Ioia, che conosce perfettamente le dure leggi del carcere. – Se in galera si dovesse scoprire, ad esempio, che la vittima che hai ucciso o abusato sessualmente è un bimbo oppure una donna, è la fine. Molti detenuti sono, infatti, padri di famiglia e hanno la possibilità di vedere i propri figli una sola volta a settimana, quindi sanno cosa vuol dire patire l’assenza di un figlio”, conclude il presidente dell’Associazione Ex D.O.N.
Ogni detenuto, quindi, è un potenziale “angelo vendicatore”. Una figura richiamata dallo stesso legale di Tony, Michele Coronella, che recentemente ha confessato di temere per la sua incolumità. Per realizzare la vendetta, inoltre, secondo questo codice, non c’è bisogno di particolari oggetti contundenti: “Bastano le mani, al massimo gli sgabelli che ogni cella dispone. Quest’ultimi possono arrivare fino a 20 kg e sono più che sufficienti per fare male a qualcuno. Per questo motivo un detenuto come Tony, che si è macchiato del sangue di un bambino, non deve mai rimanere solo”, chiosa Pietro Ioia.
Di Silvia D’Angelo
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