Un titolo che, paradossalmente, può apparire controcorrente. Dire che l’Italia ha bisogno dei partiti
in alcuni contesti risulta addirittura una provocazione.
Prima del 1994, svolta storica per il sistema politico italiano, ad additare il sistema partitocratico
come un modello da superare vi erano solo i Radicali. Oggi, a distanza di oltre 17 anni dalla fine
della Prima Repubblica, è divenuto lo sport nazionale.
In questi anni ai partiti sono state associate parole come “crisi”, “trasformazione” o, nei casi più
radicali, si è parlato addirittura di “fine”. Sono state definite diverse etichette che, sul piano
dell’intepretazione, hanno funzionato. Si pensi al partito personale (Mauro Calise), al partito di
plastica (Gianfranco Pasquino) capaci di incorniciare l’attuale trasformazione dei partiti. Ma sono
state trovate anche forme giornalistiche – mi si passi il termine – propagandistiche come ad
esempio il citatissimo partito mediale, o il partito liquido, per non parlare della fortunata locuzione
del partito azienda, utile per spiegare le forme verticistiche di alcune organizzazioni come ad
esempio Forza Italia.
In alcuni momenti si è ipotizzato anche un ritorno dei partiti notabili, sottolineando la continuità
dell’Italia di oggi con quella di Crispi e Giolitti attraverso elementi come “intrecci inconfessabili,
voti comprati, carriere costruite sui ricatti e raccomandazioni, cricche degli appalti pubblici e delle
massonerie deviate, case regalate ai potenti a loro insaputa per ingraziarsene i favori”
Negli ultimi anni la critica ai partiti è divenuta anche issue per mobilitare, fino al punto che il
MoVimento 5 stelle – con a capo Beppe Grillo – ne ha fatto un cavallo di battaglia.
Le ragioni di questa “crisi” o “trasformazione” sono diverse: Tangentopoli, il cambiamento del
sistema politico da proporzionale a maggioritario nel ’93, la fine delle ideologie, il processo di
mediatizzazione della comunicazione politica.
Sta di fatto che, pur con spinte presidenziali e con tutti i problemi di sorta, l’Italia è un paese che
poggia le sua fondamenta politiche sul parlamentarismo, maltrattato, svuotato in molte sue
funzioni, ma fortemente legato alle funzioni di rappresentanza espletate da una sola ed unica
organizzazione: i partiti.
A questo punto mi viene in mente una delle più classiche delle definizioni che, presa nella sua
neutralità, dice molto sul modello e i modelli di partito: “i partiti sono associazioni fondate su
un’adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di
potenza all’interno di un gruppo sociale e ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) per il
perseguimento di fini oggettivi o per il perseguimento di vantaggi personali, o per tutti e due gli
scopi” (Weber 1922; trad. it. 1974 vol. I, 282).
E se provassimo a ripartire da qui?