Giugliano nell’Ottocento una località di villeggiatura per gli artisti. Una poesia lo testimonia. Da leggere! 

Vi proponiamo prendendo spunto dal gruppo Archivio Storico Giuglianese una bellissima poesia da leggere per ricordare quanto fosse bella la nostra città 

Il testo è dell’artista  Gennaro Columbro

La villeggiatura a Giugliano

di Gennaro Columbro

Annoiato di una vita

dai malori indebolita

venni qua per istar sano

nella terra di Giugliano.

Se dai Giulii o se dai gigli

questa terra il nome pigli

io nol so; ma so di certo

che Giugliano è un loco aperto

e non ha collina intorno

che gli celi il mezzogiorno.

L’aria è sana, il ciel sereno,

e sì fertile il terreno

che produce erbe squisite,

frutta dolci e saporite.

Ma di nettare bocconi

sono i fichi ed i poponi,

e quei teneri e non molli

delicati capocolli,

per li quali io lascerei

anche il cibo degli Dei.

Ha le strade lastricate,

piane, belle e popolate,

ed ha pur le sue stradette

solitarie ed ombrosette,

che conducono a Marano,

a Panicocoli, a Mugnano,

ad Aversa, a Santo Arpino,

Grumo, Fratta e Casandrino.

Non vi è casa, benché vile,

che non abbia il suo cortile,

ove sorgon certe belle

piante giovani, novelle,

sotto l’ombra delle quali

quelle genti naturali

se ne stanno liete liete

in santissima quiete.

Quivi trovo la cucina,

la dispensa, la cantina,

il granaio e la stalluccia

per il porco e per la ciuccia.

Nelle stanze da dormire

vi son letti da stupire,

ma son alti a segno tale

che vi vogliono le scale.

Cinte poi le stanze intorno

son da logge a mezzogiorno

che da questo e da quel lato

hanno un fresco pergolato

di pendenti uve mature,

parte bianche e parte scure.

Pende là sospeso al perno

il cocomero d’inverno,

pendon qui da giunchi stretti

cento rustici mazzetti

di cipolle, di silvane,

sorbe gialle e melagrane.

Ma la gente del paese

è sì buona e sì cortese

che se un po’ ti fai vicino

al suo tetto, al suo giardino,

e ti fermi per diporto

a guardar la casa e l’orto,

esce tosto la padrona

lieta lieta, buona buona,

e piacevol e gentile

t’introduce nel cortile,

e ti porta al suo granaio,

al suo forno, al suo pollaio

e ti dà d’amore in pruova

il pan caldo e le fresche uova.

Nulla dico dell’affetto

di colui che diemmi il tetto,

tetto amico e liberale,

tetto dolce, in su del quale

scriver ben vi si potria:

“Regna qui la cortesia”.

Molto vaghe e molto belle

qui non son le villanelle;

ma nei giorni delle feste

vanno adorne di una veste

che simpatiche le rende

e che l’occhio non offende,

come gli abiti alla moda

con le pieghe e con la coda.

Hanno qui le donne il gusto

di vestire, a mezzo busto,

un bel saio incarnatino

e talor verde o turchino,

trapuntato a striscia d’oro.

Dalla vita angusta e snella

cade giù la lor gonnella

cui dinnanzi ondeggia un lieve

grembial bianco qual neve,

e nel basso suo contorno

ricamato intorno intorno

gira un lucido ornamento

di bell’oro o bell’argento.

Ma la gonna non è poi

tanto lunga che non puoi

ravvisare a prima occhiata

la lor calza colorata

e la scarpa ornata e bella

che pantufula s’appella.

Sulle spalle in due diviso

hanno un velo emulo al viso,

che si chiude innanzi al seno,

ma non sì che celi appieno

il candor del tumidetto

giovanile, eburneo petto.

Dalla gola lor gentile

pende un lucido monile

di più file in maglie stretto

di massiccio oro perfetto.

Dagli orecchi in giù cadenti

scendon tremuli pendenti,

non di lucido zaffiro

ma di perle unite in giro.

Invidetta poi nasconde

le lor trecce aurate e bionde

sottil rete, che fermata

su la fronte delicata

è da un nastro emulo al fiore

che celeste ha il suo colore.

Poi dal capo al petto insino

scende un bel candido lino,

tutto orlato di una bella

trapuntata reticella

che dall’una all’altra parte

si divide e si diparte,

e che ondeggia in su la faccia

e talor la gola allaccia.

Così van le semplicette

ricciutelle foresette,

e, vestendo in foggia tale

schietta schietta e naturale,

par che spargono amorose

un odor di gigli e rose.

Ma il linguaggio paesano

qualche cosa ha dello strano,

perché ognun di questa terra

ha giurato eterna guerra

all’armonico e discreto

primo suon dell’alfabeto.

Né capir si sa perché

muta l’A si spesso in E.

Quindi avvien che se costoro,

esprimendo i sensi loro,

voglion dir:“Quegli ha peccato

Ed Iddio l’ha castigato”,

Ti diran –“Quegli ha peccheto

Ed Iddio l’ha castigheto”.

Che dirò di questi belli

ubertosi campicelli,

a cui Cerere e Pomona

tutto il suo dispensa e dona?

Io dirò che la natura

paga qui con doppia usura

le fatiche ed i sudori

dei campani agricoltori.

Proteggete, o Numi amici,

questi bei campi felici,

e non turbi o nembo o gelo

il seren di questo cielo,

ch’io per me, benché lontano,

sempre caro avrò Giugliano

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