Sanremo, quando Bertoli parló ad un’Italia rassegnata

Si avvicina il festival di Sanremo, l’appuntamento musicale italiano per eccellenza.
La kermesse, nell’arco della sua storia lunga 71 anni, ha raccontato l’Italia attraverso ospiti, canzoni, conduttori e vallette. Migliaia e migliaia di brani, cantati con l’orchestra o sulla base musicale. Prima al teatro del Casinò della cittadina ligure, poi all’Ariston dal 1977.

Bongiorno, Baudo, Conti, Amadeus, Baglioni, Morandi, Vianello, Fazio, Bonolis, Ventura, Clerici, Goggi, tutto d’un fiato la storia dello spettacolo italiano ha attraversato epoche di personaggio in personaggio. Di canzone in canzone. Sanremo è stata da sempre la trasmissione che ha anticipato le tendenze televisive, in particolar modo quelle tecnologiche, con scenografie costose e all’avanguardia.

A proposito di avanguardia. Se approfondiamo l’aspetto musicale (che dovrebbe essere quello più importante), chi sono stati i coraggiosi artisti che in queste 70 edizioni hanno sparigliato le carte uscendo fuori dai cosiddetti schemi artistici? Nel 2000 Fabio Fazio portò a compimento un cambiamento epocale facendo esibire sullo stesso palco, nella stessa serata Avion Travel, Gigi D’Alessio, Max Gazzè e, udite udite, i Subsonica. Cosa c’è di strano? Niente, anzi. La scena indie si affaccia al festival della canzone italiana con dignità e qualità. Giungeranno undicesimi.

Ma la vera rivoluzione fu quella di Adriano Aragozzini nel 1992. Il direttore artistico, discusso quanto amato, accettó tra i “campioni” un brano dal titolo “Italia d’oro”. Un brano rabbioso e amorevole, che racconta l’Italia degli ultimi, profetizzando anche il terremoto di Tangentopoli. Pierangelo Bertoli, cantautore sopraffino, che negli anni 70 aveva conquistato il pubblico operaio, con una scrittura “di pancia” e una voce dal timbro carnale e rassicurante, dapprima confonde nei suoni la barcarola napoletana con i gusti celtici, poi scomoda, con coraggio ineguagliabile, le parole dell’inno nazionale, impegnando sul finale, e non poco, i coristi dell’orchestra.

Lavoro, tangenti, povertà, giustizia, parole chiave del brano, che scritte così potrebbero farci pensare alla solita manfrina sulla nazione che non va, scadendo nella retorica del fallimento a tutti i costi. Bertoli disegna un popolo rassegnato a priori. Un’Italia che suda e guarda lo scempio consumarsi senza muovere un dito.

Italia d’oro è una canzone rivoluzionaria per Sanremo. Un gioiellino, che Bertoli interpreta con grande intensità e forza d’animo. Ovviamente non vinse. I tempi non erano maturi e forse non sono mai maturati. Forse.

Ascoltatela. Vale la pena.

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