Racket del cocco, ecco come funziona l’affare d’oro della camorra

Escono la mattina presto, e per le otto sono già in spiaggia. Ognuno porta un carico di venti-trenta pezzi confezionati in retini blu pieni del frutto esotico che ciascuno di noi ha assaggiato almeno una volta nella vita, soprattutto quando si è al mare: il cocco. Soldati inconsapevoli di una camorra invisibile eppure presente sul territorio. Anche quando non è quello napoletano. Sgobbano per dieci-dodici ore consecutive sotto il sole, macinando chilometri di battigia e – quando la merce si è esaurita – c’è chi corre a rifornirli di un secondo o terzo carico. Non ci vuole molto a intuire da dove venga questo esercito di venditori ambulanti: per quanto mascherato, l’accento tradisce la loro origine.

È il grande affare del cocco, sul quale la criminalità organizzata di Napoli ha messo da tempo le mani. Un business che ogni estate riesce ad assicurare guadagni milionari ai clan. La Sardegna è la meta più ambita, ma ormai le «paranze» che all’inizio di giugno partono alla volta delle principali località turistiche italiane hanno invaso anche la riviera romagnola e i litoriali laziali e toscano. Affari apparentemente innocui, dietro il quale si nasconde invece l’ombra della camorra.

«Cocco fresco cocco bello!». Cappellini di paglia e pelle tatuata arrostita al sole, i napoletani che trovano lavoro vendendo il frutto della noce di cocco rispondono in realtà a un rigido codice imposto dai clan della criminalità organizzata napoletana, che con questo commercio fa affari d’oro. È il racket del cocco. Facile da gestire, con pochi rischi rispetto ad altre forme di attività illecite e – soprattutto – molto ma molto conveniente. Chi lo gestisce, alla fine dell’estate, si porta a casa dagli 800mila al milione di euro (ovviamente esentasse).

Ma procediamo con ordine, focalizzando proprio la Sardegna, dove da oltre dieci-quindici anni i clan hanno piantato radici e basi operative. L’isola è stata suddivisa in quattro quadranti, a mo’ di punti cardinali, all’interno dei quali opera ciascuna organizzazione criminale.

Tra la più redditizia c’è quella compresa dai due versanti della provincia di Olbia-Tempio. Qui si è insediata ormai un a «paranza» gestita direttamente da uomini considerati vicini al clan Contini. E non a caso tutti i «dipendenti» – sfruttati e ovviamente pagati al nero – rispondono agli ordini di un uomo già noto alle forze dell’ordine che offre loro il seguente rapporto di lavoro: vitto e alloggio, oltre al 40 per cento dei ricavi giornalieri.

I gruppi vengono organizzati a Napoli in primavera, e a metà giugno si parte. Il viaggio è naturalmente a carico dell’organizzazione: ma se poi qualcuno dei «dipendenti» sgarra o non rende deve tornarsene a casa pagandosi anche il biglietto della nave. Le regole sono ferree e non ammettono deroghe: la prima è quella di non parlare e non rispondere a chi fa domande indiscrete. La seconda prevede il controllo delle zone assegnate: e così se sulle spiagge bianche della Marinedda o di Isola Rossa viene intercettato un intruso, un concorrente, il venditore ha l’obbligo di avvertire immediatamente o mast, il quale arriva con due scagnozzi e fa capire – a prole, ma se serve anche passando ai fatti – che su quei litorali non c’è spazio per altri venditori di cocco che non siano napoletani.

Poi ci sono le donne della famiglia. Le donne del gruppo che comanda. Si confondono tra i bagnanti, ma in realtà hanno un ruolo ben preciso: controllano che ciascun venditore faccia il proprio dovere. E che non dia confidenza agli estranei.

La giornata di sfruttamento dei poveri cristi che vanno su e giù per le spiagge a vendere il «cocco bello» termina la sera in uno dei tanti baretti della provincia olbiese: li riconosci subito, fermi a giocare alle slot o a bere birra, non solo per l’accento ma anche per i discorsi che fanno sui guadagni giornalieri. Poi tutti a letto, mai oltre la mezzanotte perché c’è un’altra giornata in spiaggia ad attenderli.

Il copione sardo è praticamente lo stesso che si ripete da Rimini a Riccione, da Viareggio all’Argentario, da Formia a Sperlonga. Il bello è che le forze dell’ordine – bene al corrente di queste forme di attività a dir poco border line, poco o nulla possono per stroncarle e risalire ai boss che spadroneggiano impuniti da decenni. Qualche anno fa proprio in Sardegna i carabinieri riuscirono a incastrare e arrestare due pregiudicati napoletani che gestivano il racket del cocco e che massacrarono di botte uno straniero che aveva «osato» mettersi a vendere in spiaggia il frutto esotico. Vennero condannati per tentato omicidio.

fonte: Giuseppe Crimaldi, Il Mattino

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