Ho 34 anni e, come tutti, mi capita spesso di parlare di lavoro e di quotidianità con i miei amici. Nessuno – ripeto nessuno – mi sembra apparentemente felice della propria situazione. Avvocati con il massimo dei voti ridotti a fare i segretari, architetti costretti a passare le giornate facendo fotocopie per 200 euro al mese, dottorandi e post dottorandi senza assegni di ricerca a fare “marchette” per pochi euro, ingegneri attaccati alla Rete a cercare qualche posto in un’altra nazione.
E ancora. Imbianchini che stazionano fuori ai bar in cerca del caporalato di turno, muratori costretti a mendicare un lavoro all’impresa edile locale, camerieri per 25 euro, commesse a nero che lavorano otto ore al giorno. E ancora. Operatrici sociali che non vengono pagate da mesi, amiche che per lavorare riconcorrono i “gironi dell’inferno” dei call center, operai in cassa integrazione, giornalisti che per pochi euro al giorno
passano le giornate davanti ai pc. E potrei continuare per ore.
Tutti, più o meno miei coetanei, spaventati dalla vita, dal lavoro, da quello che sarà. Tutti impauriti nei rapporti con le persone, un po’ arrabbiati e per forza di cose cinici. Difficoltà nelle relazioni di coppia per una precarietà che ormai accompagna anche i sentimenti. Il più delle volte ancora a casa dei genitori, e nella peggiore delle ipotesi a chiedere i soldi delle sigarette al padre prima di uscire. Figli in programma…non se ne parla nemmeno.
Durante i confronti, le discussioni, gli sfoghi ogni volta mi sento un po’ più vuoto e – vuoi per empatia o per una situazione precaria che anch’io mi ritrovo a vivere – dopo mi risulta difficile sorridere. Mi sale un senso di irrequietezza e di paura che mi accomuna a loro. E puntualmente torno a casa o continuo la mia giornata con questo stato d’animo.
Percepisco un senso di sconfitta che mi costringe a rivedere ciò che ho intorno. E mi capita puntualmente di mettere tutto in discussione: la politica, il mercato del lavoro, le relazioni sociali, quelle familiari.
Ogni volta però più che trovare risposte aumentano le domande. Per quanto tempo ancora
dovremmo andare avanti così? Come generazione e non solo, questo è davvero quello che ci
spetta? Possibile che le risposta per trovare garanzie di stabilità nel lavoro, e nella vita, siano da trovare all’estero?
Non so come andrà a finire e purtroppo non ho gli strumenti per poter indicare cosa c’è davanti a noi. Non posso nemmeno rincuorarli perché dopo una pacca sulla spalla e qualche consiglio alla fine si torna a casa nuovamente a fare i conti con la propria situazione.
Però su una cosa ho una certezza.
Tutto ciò, tutto quello che ho appena descritto, che mi appesantisce umanamente, mi delude politicamente e mi toglie i sorrisi non è motivo che mi spinge ad andar via, ad emigrare, anzi, mi da ogni giorno, ogni minuto una spinta a restare, a non abbandonare tutto e tutti, a non perdermi. Io qua ci resto finché le cose non cambiano.