Ha fatto scuola Fede, lo ha perfezionato Grillo, lo ha sdoganato Il Giornale di Feltri, lo ha reso celebre Travaglio, ne ha fatto mestiere il Fatto Quotidiano di Padellaro.
E’ l’antilinguaggio della politica all’italiana, che negli ultimi anni ha caratterizzato il suono delle parole della discussione politica che dal bar si è lentamente trasferita nello spazio politico tout court.
PierCasinando, Minchiolini, Scodinzolini, nano-malefico, psico-nano, il premier sinistro, Umilio Fede. E ancora “Concitina” di La Russa dedicato al direttore dell’Unità, il Purzeddu di Emilio Fede diretto al fotografo Zappadu che immortalò il premier nella sua villa in sardegna durante un party tornito di donne in topless, o il Pompiere della Sera di Travaglio diretto al quotidiano della RCS.
La lista sarebbe lunga, e devo ammettere piuttosto creativa.
La presa in giro dell’avversario, il ridicolizzare con allusioni e assonanze, il delegittimare attraverso la scanzonatura sembrano dunque all’ordine del giorno.
Ma cosa c’è dietro questa tendenza linguistica?
Le dimensioni di questo crescendo dell’antilinguaggio trovano parecchi consensi in rete. I social network e i blog più attivi politicamente ne fanno ampio uso e consumo.
Il simbolismo che sta alle spalle dell’antilinguaggio politico contemporaneo rimanda invece ad una forma di antipolitica carnescialesca (inaugurata dal comico Grillo) dal vago sapore satirico che spesso e soventemente scivola nell’offesa e nel turpiloquio puro.
Difficile trovare una sua connotazione attraverso le tradizionali tipizzazioni del linguaggio politico.
Una soluzione originale e capace di spiegare questa ventata di antilinguaggio è stata fornita recentemente da Anna Sfardini e Gianpietro Mazzoleni e definita come Politica Pop che negli ultimi anni è stata messa al centro degli studi sulle trasformazioni della comunicazione politica.
Alla base vi è l’idea che la politica sia stata svuotata del suo contenuto tradizionale e ormai si viva una sorta di iperrealismo colonizzato dai media. Come ben ci spiega Diamanti in un suo recente articolo apparso su Repubblica :
È la pop-art della democrazia-pop. Dove i valori sono trasmessi dai comportamenti pubblici e privati – tanto è lo stesso – esibiti dalle istituzioni. Dall’esempio degli uomini che le rappresentano e le governano. Dai media. Tanto più oggi, in Italia. Dove i confini tra chi guida la politica, il governo, i media sono tanto sottili e confusi che quasi non si vedono. (Repubblica)
Volendo “raffinare” la riflessione potremmo – con un atto di estrema estensione concettuale – cercare di ancorare l’antilinguaggio alle categorie tradizionali della ricerca sul linguaggio politico.
Edelman nella sua nota tipizzazione sui linguaggi politici non aveva contemplato questa modalità, forse proprio perché non trattasi di linguaggio politico puro ma di una forma non retorica di discussione politica. Se volessimo però stirare la tipizzazione di Murray Edelman si potrebbe comunque incasellare questo tipo come una forma di linguaggio esortativo:
Costitutive del linguaggio politico esortativo sono la drammatizzazione e l’emotività, due registri cruciali per conquistare l’attenzione e il consenso del pubblico. Il contenuto di questo linguaggio è ambiguo e mutevole mentre la forma si basa essenzialmente su premesse, deduzioni e conclusioni, alcune formulate esplicitamente, altre no. (Federica Web Learning)
Cercando di rendere culturale la discussione potremmo addirittura affermare che l’antilinguaggio politico in Italia ha radici ben lontane. Si pensi all’ex presidente della repubblica, senatore a vita ed ex ministro degli interni Kossiga che negli anni ’70 – sovente accompagnato dalla scritta Boia – spadroneggiava sui muri delle città italiane, al più sottile Ras rivolto a Craxi per indicare la estrema personalizzazione del PSI negli anni ’80.
Ma forse ciò che caratterizzava simbolicamente il linguaggio durante il ventennio di piombo poco – se non per nulla – ha a che fare con i Fido Fede che circolano nei diversi articoli e nei commenti – più o meno autorevoli – sul tg4.
Il simbolismo che regna in questo “tipo” di linguaggio politico travalica i diversi aspetti dell’antipolitica e del populismo linguistico e certamente non lo si può cassare come semplice spazzatura linguistica e giornalistica e cercare di addurre motivazioni culturali o comunicazionali può apparire un mero esercizio di stile intellettuale, certo sta che l’antilinguaggio è ormai una dimensione del discorso politico con il quale dobbiamo fare i conti.
Ma la dimensione etica comunque resta e bisogna chiedersi per quanto tempo ancora dovremmo leggere ed ascoltare lo stravolgimento dei cognomi, le aggettivazioni aggressive sul limite dell’offesa, l’allusione senza contenuto.
Forse bisogna semplicmente scegliere tra due visioni del mondo: il primo, Nanni Moretti, con il suo “Chi parla male, pensa male e vive male”, il secondo, Enrico Ghezzi, che chiosava affermando che “il turpiloquio è l’unica verità politica”.
A voi la scelta.