Maradona è stato uno degli ultimi uomini in grado di scatenare a Napoli fenomeni di devozione popolare ai limiti del paganesimo. Come è per San Gennaro. Come è stato per Totò e Massimo Troisi. A dimostrarlo sono le strade della città. I murales e i feticci del Pibe che contendono gli spazi della religiosità con le statue di Padre Pio agli angoli dei vicoli. Ma anche la ricca agiografia, alimentata da giornali e media, e poi passata di bocca in bocca, come un inciucio da bar, che raccoglie un’anneddotica fatta di miracoli sportivi e leggende metropolitane sulla figura di Diego, imbalsamata nel mito già prima della sua morte fisica.
Maradona, l’unico che non deludeva in una città di delusi
Ma il mito di Maradona non nasce a caso. C’è un preciso momento storico che spinge per la nascita di un cristo della plebe. Napoli lo aspettava da tempo, come si aspetta un messia. Negli anni ‘80, quelli del “riflusso”, contrassegnati dal disimpegno pubblico e dalla crisi delle ideologie, a pochi anni dal crollo del muro di Berlino, Diego è riuscito a soddisfare quel bisogno identitario che la città reclamava.
A Napoli c’era voglia di rivincita. Su tutto. La politica e i suoi sogni di rivoluzione avevano deluso. La classe dirigente del Secondo Dopoguerra aveva banchettato sulla capitale del Sud, prima col sacco edilizio degli anni ’60 e poi con la ricostruzione post-terremoto. Miliardi delle vecchie lire dissipati in corruzione e opere incompiute. Anche lo Stato unitario aveva deluso. Il divario tra Nord e Sud restava una voragine. Due Italie. Due velocità. I grandi capitali affluivano nelle banche settentrionali; ogni anno schiere di disoccupati si lasciavano il Vesuvio alle spalle per lavorare nelle catene di montaggio delle fabbriche di Milano o Torino. I più disperati espatriavano, portando la propria fatica in Svizzera o in Germania.
E poi c’era quella là: la camorra. Che aveva illuso. I grandi signori della malavita non avevano salvato nessuno. I clan pensavano a costruire i propri imperi familiari. Compresi i Giuliano di Forcella (a cui il nome di Maradona è legato). Una dinastia criminale. Non di certo il circolo di benefattori che certa propaganda di strada voleva far credere. Le promesse di giustizia sociale non erano giunte neanche all’inizio del decennio, con i cutoliani. Ne era nata solo una guerra sanguinaria con le vecchie famiglie per il controllo della droga e del contrabbando di sigarette.
Ebbene, in questo contesto, a Napoli, negli anni ’80, la domenica allo stadio c’era Diego. E lui non ti deludeva. Non era lo Stato, la politica. E manco la camorra che faceva più morti di una guerra. Che fossi un puzzafame dei quartieri o un figlio di papà del Vomero o di Posillipo, lui attaccava i tuoi sogni sulla punta degli scarpini e li affidava al volo di un pallone. Era la migliore pausa dal mondo. Era la messa in parentesi della miseria. L’estasi di un popolo. Il riscatto del pezzente dei barrios argentini che si fa dio in nome degli ultimi. Ed era così: con Diego la bellezza del gesto sportivo trovava la sua incarnazione. La sua trasposizione terrena. Si faceva vita.
Napoli non ha bisogno di altri Maradona
E poi, però, tutto finiva lì. Nel silenzio, entro le righe di gesso del campo da gioco. Niente usciva dal catino dello stadio. Le urla della curva, gli scudetti appiccicati al petto, l’iconografia votiva nei vicoli, il miracolo dei gol impossibili contro le squadre del Nord – quelle dell’industria settentrionale degli Agnelli e dei Berlusconi – non hanno dato a Napoli né ricchezza né futuro. Non ci hanno indicato una via. Non ci hanno salvati dalla povertà dei quartieri o dalla Gomorra delle Vele di Scampia. Dopo il triplice fischio dell’arbitro la città ha continuato a contorcersi dentro il suo ventre. Con o senza D10S.
Per questo occorre altro. Non di certo un mito sportivo. Chiuso il sipario sul grande personaggio di Maradona, la folla che anima le curve e si abbona ogni anno alle dirette televisive deve spingere lo sguardo oltre l’area di rigore. Napoli, il suo popolo, non ha bisogno di altri Diego, così come di altri fantastici giocolieri da trasformare in divinità popolari. Ha bisogno di altri riscatti, meno folkloristici, meno effimeri, a cui affidare la propria voglia di cambiamento. E quei riscatti – umani, sociali, economici – non potranno venire da un pallone.