Monologo di Rula Jebreal a Sanremo 2020: testo, storia e video del discorso sulle donne

Ha commosso decine di telespettatori il monologo di Rula Jebreal a Sanremo 2020. Il discorso fatto in video davanti a milioni di persone racconta della vicenda della mamma della giornalista e di tante storie simili che hanno per oggetto la violenza sulle donne.

La storia della mamma Zaika di Rula: stuprata e suicida. Video

La co-conduttrice di Sanremo racconta la storia della mamma, stuprata e poi suicidata dandosi fuoco quando lei aveva poco più di cinque anni. Rula si è armata di coraggio, è salita sul palco e ha interpretato un toccante discorso rivolto a tutti gli uomini che usano violenza contro le donne.

All’Ariston è calato un silenzio surreale mentre le parole della giornalista israeliana, con gli occhi lucidi e voce rotta dall’emozione, vibravano nell’auditorium in diretta video. Poi, appena concluso, il monologo è stato accolto e salutato da un lunghissimo applauso. Il filmato integrale è disponibile anche su YouTube, sul canale Rai di Sanremo.

Il significato del monologo di Rula Jebreal

A spiegare in anteprima il senso del monologo è la stessa interprete. Infatti, in’intervista al settimanale Vanity Fair, ha parlato di come la sua storia personale abbia visto molto da vicino i segni e le cicatrici della violenza sulle donne. E, per questo motivo, il suo discorso al Festival della Canzone non sarà politico ma sociale per denunciare una piaga globale. «Mia mamma si è tolta la vita dopo un’infanzia di violenze tra i 13 e i 18 anni – ha detto Rula Jebreal nella sua intervista -, nessuno le aveva creduto per salvare ‘l’onore’ della famiglia». Una vicenda triste e dolorosa per la giornalista che, però, si rispecchia in molte delle vicende di cronaca quotidiana.

Testo integrale del monologo di Rula Jebreal a Sanremo 

Le parole sono state scelte con cura e scritte da Rula con la collaborazione della ex giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Selvaggia Lucarelli. Le due colleghe si sono incontrate nei giorni scorsi e hanno collaborato alla stesura del testo da leggere poi a Sanremo.

«Lei aveva la biancheria intima quella sera?»
«Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?»
«Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?»
«Se le donne non vogliono essere sfruttare devono smetterla di vestirsi da poco di buono».

Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, melliflue, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o troppo brutto perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta.

“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo.
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te.”

Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano.

Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate. Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore.
Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri.

E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina.

“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Giuro che lo farò
E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò
Quando la donna cannone
D’oro e d’argento diventerà
Senza passare dalla stazione
L’ultimo treno prenderà”.

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura.
Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.

“Sally ha patito troppo
Sally ha già visto che cosa
Ti può crollare addosso
Sally è già stata punita
Per ogni sua distrazione o debolezza
Per ogni candida carezza
Data per non sentire l’amarezza”

Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico.

Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà.

Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”

“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
Una stagione ribelle
L’istante in cui scocca l’unica freccia
Che arriva alla volta celeste
E trafigge le stelle
È un giorno che tutta la gente
Si tende la mano
È il medesimo istante per tutti
Che sarà benedetto, io credo”

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