Arcangelo gli avrebbe mostrato il petto, gli avrebbe lanciato la sfida: “Spara!”. E Renato Caiafa, forse per sbaglio, forse no, avrebbe accettato il gioco mortale e avrebbe sparato davvero. Il colpo si sarebbe conficcato nella testa del suo amico di infanzia condannandolo a morte. È questa la dinamica che emerge dalla confessione di Renato Caiafa, il giovanissimo accusato dell’omicidio di Arcangelo Correra avvenuto in via dei Tribunali.
Napoli, la sfida di gruppo nell’omicidio di Arcangelo: “Sparami qui, al petto”
Come ricostruisce Il Mattino, sono le cinque, in piazzetta Sedil Capuano: una comitiva di ragazzi rumoreggia sugli scooter. Non hanno voglia di rientrare a casa, sebbene manchi poco più di un’ora all’alba. Tra di loro c’è una pistola: la impugna il più grande del gruppo, Renato. Non si sa dove sia stata recuperata quell’arma. Però c’è: è un vanto, un segno di potere. La versione del 19enne reo confesso è che quella pistola sia stata ritrovata la sera stessa, per caso, sullo pneumatico di un’auto in sosta. Una ricostruzione che secondo il gip del tribunale di Napoli, però, fa a cazzotti con la logica: “La notte è nera, lo pneumatico è nero e la pistola è nera”. Difficile immaginarsi che un’arma con la matricola abrasa e modificata, di un certo valore, sia abbandonata così dalla criminalità del centro storico. L’ipotesi è che Caiafa la tenesse già da tempo.
Lo scenario investigativo così cambia: non omicidio colposo, ma omicidio volontario con dolo eventuale. Un gioco mortale finito nel modo peggiore. Due amici per la pelle, Renato e Arcangelo, che si conoscono da 13 anni, si sfidano. “Spara al petto”, avrebbe detto la vittima. E Caiafa, con l’arma in mano, avrebbe sparato per davvero. Le risultanze dell’autopsia chiariranno la traiettoria del proiettile, per capire se ha raggiunto direttamente la testa oppure se il colpo è entrato da un’altra parte. Renato vede il sangue, attorno a lui tutti quanti gli domandano «ma che hai fatto?», mentre il 18enne barcolla. Riesce a dire qualche parola, la vittima:«non è successo niente…», poi cade a terra.
Il resto è già agli atti. Arcangelo viene portato in ospedale in sella a uno scooter guidato da Renato Caiafa, messo al centro del sellino, in coda al quale viaggia un altro ragazzo, che ha 17 anni. Durante il viaggio verso il Pellegrini, Arcangelo pronuncia le sue ultime parole, rivolgendosi proprio all’amico di sempre: «Renato, non mi lasciare…». Una volta finito in manette, il 19enne indagato prova a ricondurre tutto a un evento accidentale. Ma ai giudici non sfugge la sua lucidità dopo la morte dell’amico: chiama lo zio e gli chiede di recuperare in piazzetta lo scooter e la pistola. Poi getta gli abiti imbrattati di sangue. Una condotta anomala, più da criminale consumato che da ragazzo diventato “orfano” di un amico. Elementi che spingono gli inquirenti a non credere alla versione del ritrovamento accidentale della pistola.