Vi invito a leggere questo passaggio del testo “La ragione populista” di Ernesto Laclau (2008, pp. 15-19). Oltre a consigliarvi il libro, trovo che sia una delle ricostruzioni semantiche e politiche sul concetto di populismo più interessanti degli ultimi vent’anni. Questo libro è destinato a far aprire un ampio dibattito. Laclau è la prima volta che viene tradotto in Italia e insegna Teoria Politica all’Università dell’Essex.
Dobbiamo in primo luogo domandarci se l’impossibilità (o quasi) di definire il populismo sia dovuta al fatto di descriverlo come un fenomeno che esclude a priori ogni apprensione concettuale della razionalità inerente alla sua logica politica. Penso proprio che sia così. Se il populismo viene descritto solo in termini di vaghezza, imprecisione, povertà intellettuale, o come fenomeno puramente transitorio, manipolativo, e così via, non c’è modo di stabilire la suadifferentia specifica in termini positivi. L’intero esercizio sembra invece mirare a separare ciò che è razionale e concettualmente rilevante nell’azione politica dal suo opposto dicotomico: il populismo inteso come un fatto irrazionale e indefinibile. Una volta imboccata questa strada, è naturale che la domanda “che cos’è il populismo?” venga rimpiazzata da un’altra: a quali realtà sociali e ideologiche si applica la categoria populismo?. […] Tuttavia, dal momento che per applicare una categoria occorre presumere che ci sia comunque un legame esterno che giustifica l’applicazione, la seconda domanda si traduce solitamente in una terza: di quale realtà o situazione sociale il populismo è l’espressione?
[…] Per scavalcare questa denigrazione discorsiva del populismo non bisogna però contestare le categorie usate nel descriverlo – vaghezza, imprecisione, e via dicendo – ma bisogna semmai prenderle sul serio, bisogna prenderle alla lettera, scansando i pregiudizi che le rendono di primo acchitto inaccettabili. Il che signfica: anzichè contrapporre alla vaghezza una più matura logica politica, governata da un alto grado di determinazione istituzionale, provare a sollevare domande nuove e più radicali: la vaghezza dei discorsi populistici non è forse la conseguenza di una certa realtà sociale, anch’essa, a tratti, vaga e indeterminata?. E’ in questo caso: il populismo, anzichè una goffa operazione politica e ideologica, non è forse un atto performativo dotato di una propria razionalità interna – e la vaghezza, almeno a volte, non è forse un requisito per costruire significati politici rilevanti?. Infine: il populismo è davvero una fase transitoria, frutto dell’immaturità degli attori sociali, destinato ad essere superato sempre in un secondo momento, o è invece una dimensione costante dell’azione politica, che necessariamente affiora (con grandezze diverse) in tutti i discorsi politci, sovvertendo e complicando le operazioni delle ideologie cosiddette mature?.
Proviamo a fare un esempio.
Il populismo, si sostiene, semplifica lo spazio politico, rimpiazzando una serie complessa di differenze e determinazioni con una secca dicotomia, i cui poli sono inevitabilmente imprecisi. […] In queste dicotomie, come in quelle che costituiscono ogni limite politico-ideologico, si effettua una semplificazione dello spazio poitico e i termini che designano entrambi i poli devono necessariamente essere imprecisi.
[…] Un altro modo diffuso di accomiatare il populismo, come visto, è quello di relegarlo nell’ambito della pura retorica. […] Prendiamo in esame la metafora. Come sappiamo, la metafora stabilisce una relazione di sostituzione tra termini in base al principio di analogia. Ora, in ogni struttura dicotomica un insieme di identità o di interessi particolari tende a raggrupparsi nella forma di differenze equivalenziali attorno a uno dei poli della dicotomia. Per esempio, i torti subiti da vari settori del popolo saranno visti come equivalenti gli uni agli altri vis-à-vis della oligarchia. Ma ciò equivale a dire che aranno tutti analoghi, se raffrontati al potere oligarchico. E cos’è questa se non una riaggregazione metaforica? Non è nemmeno necessario aggiungere che la rottura di queste equivalenze nella costruzione di un discorso più istituzionalista dovrà sfruttare anch’essa mezzi, magari diversi, ma pur sempre retorici. Lungi dall’essere solo retorici, questi messi sono infatti quelli inerenti alle logiche con cui si costruisce o si dissolve ogni spazio politico.
Possiamo allora dire che il progresso nella comprensione del populismo richiede, quale conditio sine qua non, di riscattarlo dalla sua posizione marginale all’interno delle scienze sociali, che lo hanno confinato nell’impensabile, facendone l’opposto delle forme politiche che davvero degne del titolo di una piena razionalità. Vorrei sottolineare che questa marginalizzazione è stata possibile solo perchè, fin dall’inizio, ogni analisi dei movimenti populisitci è stata infiltrata da pesanti elementi di condanna morale. Il populismo non è stato soltanto degradato: è stato denigrato. Il suo rigetto ha fatto parte della costruzione discorsiva di una certa normalità, di un universo politico acsetico, dal quale le sue pericolose logiche sono state escluse. D’altro canto, va pure preecisato che le strategie basilari dell’offensiva anti-populista si sono iscritte nel più ampio dibattito, che alimentò la grande peur delle sicenze sociali dell’Ottocento: il dibattito sulla pisocologia delle masse. Questo dibattito, che è paradigmatico per il nostro tema, può essere visto in larga misura come la storia della costituizione e della dissoluzione in una precisa frontiera sociale tra il normale e il patologico. Fu appunto nel corso di questo dibattito che una serie di distinzioni e di contrapposzioni furono codificate, creando una cornice al di fuori della quale apparve un’intera gamma di fenomeni politci aberranti – populismo incluso.